Le storie dietro a un Logo (Parte Seconda)

Restando nell’ambito del marchio, probabilmente il più riconoscibile nell’universo della moda, e nella “nicchia” dello sportswear, è il baffo della Nike, lo Swoosh per essere corretti.

Anche qui la genesi dell’artwork e poi il successo planetario del prodotto non  sono legati a casualità da format televisivi d’intrattenimento, a meno che non siate appassionati di documentari, ma a un approccio metodologico: Philip Knight il 25 gennaio del 1964 fonda assieme al socio Bill Bowerman la Blue Ribbon Sports (solo dopo 7 anni divenuta Nike inc.) attraverso la quale commercializza negli States le scarpe giapponesi Tiger della Onitsuka Co Ltd (attuale Asics), il successo dell’operazione lo convince a creare un suo marchio, così il nastro blu si trasforma in Nike e sempre Philip commissiona a una giovane studentessa di arte, Carolyn Davidson, la creazione di un simbolo e il gioco è fatto.

Carolyn prende spunto dal nome della dea greca che ha ispirato quello dell’azienda e ne stilizza le ali, tentando di ricreare su carta l’idea di velocità. Disegna così ciò che è oggi universalmente riconosciuto come uno dei simboli più iconici di sempre e lo fa in una manciata di ore, 18 per la precisione, incassando lo spropositato compenso di 35 dollari, meno dei due all’ora pattuiti. In realtà grazie a quella sua intuizione la Davidson trovò lavoro nel reparto grafica e comunicazione della neonata azienda, la magnanimità della quale si fece attendere fino al 1983, quando le furono donati un anello con lo Swoosh ma, soprattutto, un pacchetto di azioni Nike che probabilmente l’hanno resa molto orgogliosa del suo lavoro e tangenzialmente ricca.

Quando scrivi o pronunci “Coca-Cola” vieni investito da un ventaglio di emozioni legate a ricordi che tracimano dalla tua sfera personale per sconfinare nella memoria collettiva di tutte le generazioni che hanno vissuto le epoche dominate dal marchio (David Foster Wallace la sapeva lunga o, quanto meno, era capace di guardarsi intorno).

Questo è l’effetto che determina un approccio programmatico al branding, se messo in campo da chi ha la professionalità e il genio per ottenere simili risultati macroscopici. Eppure, dovrebbe stupire (e così è…) che a disegnare il primo logo del prodotto sia stato il suo sfortunato ideatore, quel John S.Pemberton che riuscì, nonostante la sua intuizione, ad arricchire Asa Candler, scaltro acquirente dei diritti della bevanda in vendita visti i conti in rosso del primo. In verità a realizzare la scritta pare sia stato il contabile della società di Pemberton comunque non un grafico, il quale utilizzò la font Spencerian Script, la più in voga in quel periodo negli Stati Uniti, dimostrando una certa lungimiranza.

Cosa dovrebbe stupire in questa storia?

Un paio di sfumature: il fatto che a dar vita al logo non sia stato un professionista del settore, e, soprattutto, che la sua estetica sia rimasta sostanzialmente invariata da allora (se si esclude una parentesi di 3 anni, 1890-1893, nella quale la font fu cambiata con scarsissimo successo), tradotto: funziona da quasi 130 anni! Al genio del suo creatore si affianca nel 1960 l’approccio di gente del mestiere che prima colloca la scritta in una forma geometrica rossa riportando i caratteri in bianco, colori che diverranno anch’essi un fortissimo rimando al prodotto e che indicano i suoi valori (semplicità, energia, vivacità, desiderio), e poi aggiunge alla sua base il nastro bianco (Dynamic Ribbon): lo Swoosh di Nike per Coca-Cola.

Le campagne pubblicitarie natalizie fanno il resto per consolidare il mito.

Origine simile è toccata al logo McDonald’s: uno dei due fratelli fondatori inserisce due enormi archi gialli nell’architettura di uno dei più antichi ristoranti, aperto nel 1953 al 10207 di Lakewood Blvd, Downey, California, lo scopo è quello di attrarre clienti ma la cosa colpisce anche l’attenzione di Jim Schindler, direttore creativo interno alla nuova proprietà della catena, il quale da vita alla celebre M.

Anche qui l’inserimento dello sfondo rosso (urgenza, fame) prima, e di quello verde poi (impegno ecologista) contribuiscono a cementare nell’immaginario collettivo il logo McDonald’s.

Riavvicinandoci ai “giorni nostri” emblematico è il percorso che ha portato Jeff Bezos a ottenere un marchio-simbolo tra i più efficaci: Amazon nasce come libreria on-line ma in brevissimo tempo si converte nell’e-commerce di prodotti generici che tutti conosciamo e il suo iniziale logo, una A maiuscola attraversata dal fiume (il Rio delle amazzoni che da nome all’azienda) in 5 anni viene sostituito dal marchio attuale: amazon, per esteso, con sotto lo Swish a congiungere la A alla Z (passato-futuro, ma anche riferimento alla rilevantissima pluralità di prodotti in vendita sulla piattaforma), sia freccia, sia sorriso che spicca sui pacchi in consegna, esaltando la felicità insita nell’acquisto e propria del ricevere un “regalo”.

Perché, anche se ce lo compriamo da soli, l’arrivo del corriere è sempre una festa.

Indicativo del lavoro di grafici professionisti è anche lo sviluppo del logo Volkswagen, tra quelli dell’automotive forse uno dei più riconoscibili: nasce nel 1937 a opera dell’ingegnere Franz Xaver Reimspiess, siamo quindi già nel campo di chi non lascia nulla al caso tantomeno proporzioni e geometrie, ed è fortemente condizionato dalla situazione socio-politica della Germania dell’epoca, così tanto che il cerchio, all’interno del quale le lettere V e W sono disposte esattamente come oggi, ha le fattezze di un ingranaggio, quattro denti del quale si allungano per finire a uncino disegnando così una svastica.

Questo per ribadire una volta di più che i canoni alla base del gusto estetico di qualsiasi opera di grafica finalizzata al marketing sono strettamente legati al periodo storico nel quale vedono i natali, alla sensibilità del momento, alle direzioni che la cultura del tempo ha intrapreso, al linguaggio che il consumatore di quell’epoca comprende.

I loghi riportati nella copertina qui sopra sono quelli attualmente utilizzati dai 6 marchi raccontati nell’articolo e tutti risentono dell’idea di mondo che i brand hanno contribuito a costruire in questo presente e a quella che i consumatori attuali hanno imparato a riconoscere: predominano linee pulite, un design bidimensionale, soluzioni quasi nella totalità monocromatiche, una predilezione per le tonalità scure e una collocazione spaziale priva di confini: i tratti sono compiuti e fissano senza incertezze l’identità del simbolo ma la territorializzazione è irrisolta, aperta, non determinata, a indicare che la loro collocazione è ovunque.

Soltanto una realtà in natura è davvero infinita: il pensiero.

È ad esso che il branding si rivolge.

È lì che questi simboli trovano naturale e perpetuo alloggio.