Le storie dietro a un Logo (Parte Seconda)

Restando nell’ambito del marchio, probabilmente il più riconoscibile nell’universo della moda, e nella “nicchia” dello sportswear, è il baffo della Nike, lo Swoosh per essere corretti.

Anche qui la genesi dell’artwork e poi il successo planetario del prodotto non  sono legati a casualità da format televisivi d’intrattenimento, a meno che non siate appassionati di documentari, ma a un approccio metodologico: Philip Knight il 25 gennaio del 1964 fonda assieme al socio Bill Bowerman la Blue Ribbon Sports (solo dopo 7 anni divenuta Nike inc.) attraverso la quale commercializza negli States le scarpe giapponesi Tiger della Onitsuka Co Ltd (attuale Asics), il successo dell’operazione lo convince a creare un suo marchio, così il nastro blu si trasforma in Nike e sempre Philip commissiona a una giovane studentessa di arte, Carolyn Davidson, la creazione di un simbolo e il gioco è fatto.

Le storie dietro a un Logo (Parte Prima)

“Il nostro stare al mondo è multi-sensoriale.”

Quando guardiamo qualcosa, qualsiasi cosa, riconosciamo in essa elementi legati alla nostra esperienza.

“Sembrerebbe che oggi tutto il mondo sia una questione visiva.”

“Le cose osservate hanno sempre un significato perché glie lo diamo noi guardandole, altrimenti non sapremo che farcene del mondo.”

“Nessuno potrà garantirci che il fruitore vedrà le cose esattamente come sono state progettate.”

“Il visual design progetta anzitutto rappresentazioni.”

“La rappresentazione finisce per abitare i nostri pensieri.”

“Il brand non è la merce ma la sua idea psicologica.”

Ora possiamo parlare di logo.

Rasségnati!

Co-branding, lo stai facendo nel modo g…

Dici “moda, bello, accessorio di lusso” e non penseresti mai alle Crocs, eppure…

Già, esiste un “eppure”: la percezione che avevamo fino a ieri del marchio era quella di una calzatura comoda ma bruttina, non certo un must-have per essere i più cool del party ed è su questo che sta lavorando ormai da tempo il brand statunitense. E come? Chiederete voi: la parola d’ordine è co-branding. Ecchevordì? Che per modificare la nostra idea iniziale sul suo prodotto, il marchio instaura collaborazioni con altre aziende note, con una stabile collocazione nell’immaginario collettivo del consumatore, riconoscibili e, eventualmente, operanti nell’ambito della moda, quella di lusso, ma quest’ultima è soltanto una possibilità accidentale, o almeno così pare sbirciando tra i partners scelti.

Influencer marketing

Il più figo della classe indossava felpe Best Company.

All’improvviso una pandemia di cannolé 100% cotone, 100% abeti verde pantone, invase l’istituto, nacquero i Paninari e, a traino, dal calzino al gel per capelli, tutti sapevano come avrebbero dovuto spendere i soldi di papà per essere accettati dal gregge.

 

Il Social erano i corridoi in linoleum fuori dalle aule, la leva che faceva scattare il bisogno la necessità di somigliare al maschio/donna alpha, la conversione non semplice: settimane di contrattazione estenuante per vincere le ottuse ritrosie casalinghe e ricevere a fine anno soltanto un pezzo del puzzle: una maglia, una giacca un paio di scarponi da boscaiolo, qualcosa che, almeno, non ti costringesse ad attraversare la ricreazione nella speranza di non essere notato dai crocchi di gente inserita in un mondo che scimmiottava già quello degli adulti.

Rasségnati!

La mela di Newton, la pesca di Esselunga

Guarda un po' se, nell’era del buonismo-a-prescindere, deve essere uno spot a darci lezioni di vita reale e buonsenso, da ricercarsi, quest’ultimo, a piacimento tra gli unici due punti di vista colti dal pubblico: la bambina e i due genitori. Già perché il terzo è passato in secondo piano anche se rappresenta il solo motivo per il quale è stata data l’ennesima opportunità all’internet di spaccarsi in due e riuscire, come sempre nelle questioni d’opinione (praticamente l’intera nostra esistenza), a dare il peggio di sé: l’Esselunga, catena di supermercati storica fondata alla fine degli anni 50 dai fratelli Caprotti e da Mr.Rockfeller, desideroso di conquistare il mercato italiano col modello Supermarket a stelle e strisce, che, dopo aver dato l’impronta, lascerà, dietro cospicuo compenso, la proprietà e la gestione dell’azienda ai due imprenditori italiani.

Cosa fanno gli italiani sui social?

Quesito di natura tecnica ma nemmeno troppo.

La curiosità di ritrovarci tra i decimali di qualche grafico a colonna ci solletica tutti, anche soltanto per capire quanto anticonformisti dovremmo essere in un universo nel quale l’omologazione, a tratti, sembra farla da padrona e, in altri casi, dà la sensazione di essere il linguaggio planetario o, almeno, l’unico globalmente compreso.

L’esercizio interessante è capire se, come e quanto siano cambiate le abitudini prese durante il triennio oscuro della pandemia, perché usciti dall’ora più buia (parecchie, per la verità) diamo la sensazione di essere diversi da come ci siamo entrati.